Il Metodo “Analitico-Induttivo”
L’Agenzia delle Entrate, nell’ambito della propria attività di verifica, può procedere all’accertamento delle maggiori imposte mediante l’applicazione di diverse metodologie accertative; tra queste oggi approfondiamo il metodo “analitico-induttivo” o comunemente detto “presuntivo” (ai sensi dell’ art. 39, co.1, lettera d, secondo periodo, del D.P.R. 29/9/1973, n. 600).
Con questo strumento l’Amministrazione Finanziaria contesta l’evasione del contribuente basandosi su presunzioni qualificate, cioè gravi, precise e concordanti. Questo significa che a differenza dell’accertamento analitico, dove la verifica si basa sulla presunta violazione di una norma, nell’accertamento presuntivo la verifica si basa sul ragionamento, appunto, presuntivo dell’Agenzia delle Entrate.
Il ché, tradotto, vuol dire rideterminare il reddito di un’impresa partendo da elementi comprovanti un maggior reddito in capo all’esercente quali il consumo:
- dei tovaglioli;
- dell’acqua minerale;
- della farina;
- della biancheria;
- o il numero delle bare utilizzate per organizzare i funerali.
Partendo, quindi, da alcuni dati analitici (contabili, oggettivi, vicende aziendali, ecc…) l’Ufficio determina induttivamente il reddito.
Va evidenziato che negli ultimi tempi questa tipologia di accertamento è la più frequentemente utilizzata dai verificatori, ed è così che si è iniziato a parlare di “Tovagliometro”, “Bottigliometro”, ”Farinometro”, “Lenzuolometro” e di “Barometro”.
L’uso e l’abuso dello strumento
E proprio ultimamente, dato l’uso e, alle volte, l’abuso di questo strumento di verifica, la Giurisprudenza, sia di merito che di legittimità, si è più volte pronunciata sulle circostanze in cui è ammesso l’utilizzo di questo tipo di accertamento, e soprattutto, sulla legittimità dell’operato dell’Ufficio che si muove da i consumi delle materie prime.
In questi casi, infatti, l’Ufficio non può prescindere dalle comuni regole di buon senso. Le risultanze della verifica debbono necessariamente costituire un supporto fattuale idoneo a fornire la reale rappresentazione dei fatti contestati.
La Cassazione, infatti, pur ammettendo la legittimità dello strumento di verifica, ha chiarito che comunque si deve tenere conto di variabili derivanti dall’uso comune, e, quindi, dal buon senso.
E non è sempre quello che accade nel caso di verifiche nei confronti di locali come i bar, laddove l’Ufficio applica il “tazzinometro” nel caso di ricalcolo dei ricavi per quanto riguarda la somministrazione di caffè.
L’Ufficio calcola i maggiori introiti derivanti dalla vendita di caffè, utilizzando il prezzo di vendita della tazzina, moltiplicato poi per il numero di somministrazioni annuali. Quest’ultimo dato viene a sua volta calcolato prendendo come riferimento il quantitativo di caffè utilizzato nell’anno e quello necessario per la realizzazione di una tazzina (circa 7gr), dato, quest’ultimo, che viene supposto dall’Ufficio.
In conclusione
Ma è proprio vero che l’ufficio possa dare per scontato il quantitativo di caffè in ogni tazzina, sulla sola base della “comune esperienza”? Non dovrebbe supportare le nozioni di comune esperienza con elementi di prova concreti?
Quindi, in definitiva, il fatto noto da cui parte l’Amministrazione per la verifica può basarsi solo su supposizioni, o deve avere un grado di certezza tale da apparire indubitabile e incontestabile?
È, quindi, molto importante ogni volta che c’è una verifica e viene contestata la somministrazione di caffè, verificare la metodologia seguita dai verificatori. Così, successivamente, sarà possibile valutare con il professionista specializzato la strategia migliore per tutelarsi al meglio